Note di regia
le je ne sais qui. J'espere: Jèsus Christ”
(epitaffio sulla tomba di Eugène Ionesco)
Di Ionesco la Compagnia G.o.D.o.T. ha già messo in scena Le sedie e Il re muore, due capolavori assoluti che tanto successo di critica ci hanno regalato. Non potevamo non affrontare l’opera per la quale, forse, è più conosciuto e alla quale io e Federica ritorniamo dopo molti anni, indossando nuovamente i panni dei tanto amati Signori Smith.
Nel 2005 facemmo un bellissimo viaggio a Parigi e ci recammo nei luoghi del cuore, quelli che avevamo visitato con la mente studiando le opere dei grandi scrittori e drammaturghi. Fra questi Eugène Ionesco, di cui avevamo già messo in scena questo testo col Piccolo Teatro di Catania. Andammo a visitare il Théâtre de la Huchette, un piccolissimo spazio situato nel famoso Quartiere latino, dove dal 1957 l’opera va ininterrottamente in scena; ai tempi c’erano ancora due degli attori che avevano debuttato con l’autore. Poi ci recammo al cimitero di Montparnasse dove c’è la sua tomba con un epitaffio degno dell’ironia e della causticità di questo genio. Una frase che fa capire la sua maestria nel giocare con le parole e col loro senso. Un poeta che ha sondato, come nessun altro, la problematica del linguaggio, del suo sgretolarsi e riarticolarsi per formare nuove suggestioni, a partire dal titolo di questa pièce (nato per un fraintendimento di significato durante lo studio della lingua inglese). A noi che leggiamo adesso le opere dell’ormai sdoganato Teatro dell’Assurdo, non vengono le vertigini, così come succedeva agli spettatori degli anni cinquanta del ‘900. Il debutto infatti fu, come accade per tutte le opere con un linguaggio nuovo, un fiasco. Adesso riusciamo più facilmente a capire quelle battute e a riderne, perché ormai il “nonsense” è stato acquisito, con tutte le sue declinazioni, nei vari generi dello spettacolo.
Quando ho affrontato il linguaggio di Beckett in Finale di partita, la cosa più difficile su cui mi è toccato lavorare sono stati i silenzi assordanti, i pensieri carichi di materia che affioravano come corpi galleggianti nel nulla. Qui ne La cantatrice calva ancor più che ne Il re muore o ne Le sedie, al contrario sono le parole quella materia di cui è composto il nulla: i personaggi sono immersi in un fluido composto da sillabe, vocali, frasi come pensieri non pensati, già formulati e utilizzati da marionette tragiche, immerse nell’”assurdo” che rivela l’impossibilità, l’inutilità e l’incoerenza dell’uomo e delle sue azioni, in quell’universo “liquido” che sarà tutto il ‘900 e che si protrae fino al XXI secolo.
Vittorio Bonaccorso