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Il castello

di Franz Kafka

con

Federica Bisegna
Vittorio Bonaccorso
e gli attori della Compagnia
Maison GoDoT

Note di regia


“Ogni rivoluzione evapora, lasciando dietro solo la melma di una nuova burocrazia”
(F. Kafka)

 

A cent’anni dalla morte non possiamo non omaggiare uno dei più grandi “inventori” di realtà parallele, precursore di tanti filoni letterari che difficilmente si può collocare in uno o in un altro movimento artistico del suo tempo. Dobbiamo essere grati in eterno a Max Brod per non avere esaudito le ultime volontà dell’amico morente, cioè di bruciare qualsiasi cosa egli avesse scritto. La scelta di questo testo (da un’idea di Federica Bisegna), oltre che per l’omaggio a Kafka, ha un significato ben preciso: sottolineare come, a distanza di cento anni, tutti noi siamo ancora immersi nella neve di quelle stradine che invano percorriamo per arrivare al castello.   
“Un particolare interessante a proposito del Castello. Il manoscritto comincia così: “Es war spät abends, als ich ankam” (Era tarda sera, quando arrivai). Sopra a ich, cassato con un frego, Kafka scrisse poi K.” (E. Pocar).
Riporto questa annotazione per sottolineare che, a volte, i ricorsi alle vicende personali degli autori per spiegare le loro opere sono arbitrari. K è Kafka? Forse, oppure no. Del resto il “Madame Bovary c’est moi” vale per qualsiasi scrittore, drammaturgo, poeta; e la conoscenza personale dell’uomo a volte non aiuta la conoscenza storico-culturale dell’atto artistico, piuttosto la ostacola. Soprattutto per quanto riguarda Kafka. La sua straordinaria immaginazione va oltre l’autobiografismo (lente sotto la quale viene analizzata l’opera di tanti autori come per esempio Strindberg). Ogni critico, direi ogni lettore, dice la sua intorno al significato simbolico di quest’opera, difficilmente collocabile in un preciso filone: modernismo, surrealismo, realismo magico (come tutta la produzione di Kafka).
Per quanto riguarda il significato, è intrigante l’allegoria di un’umanità smarrita, che non sa quale direzione prendere, e che ha bisogno di credere ad un potere al di sopra di tutto che assoggetti la vita e il destino di ognuno.
Ma voglio invece pensare a questo romanzo – e a tutta la sua produzione, compresi i racconti – come ad un lungo, silenzioso ma assordante grido rivoluzionario. Come recita l’aforisma che ho riportato, la società degli uomini ha continuamente avuto bisogno di nuove rivoluzioni e cambiamenti per ritrovarsi poi nuovamente ingabbiata. K de Il castello ci fa pensare al bistrattato protagonista di Evviva la rivoluzione di A. Boal (testo che abbiamo messo in scena col titolo di Rivoluzionari cercasi, nell’adattamento di F. Bisegna), cioè l’uomo schiacciato ed annichilito dal potere e dalla burocrazia ma ostinatamente idealista. Nella società contemporanea l’ideale è sinonimo di ingenuità e, soprattutto, pone chi lo pratica fuori da quegli schemi sorretti da ottusità velate da osservanza delle norme e da atteggiamenti omertosi.
Kafka, così come per gli altri suoi romanzi America e Il processo, non riuscì a finire Il castello ma disse a Brod come dovesse concludersi, consegnando all’eternità uno dei più alti capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi.

 


Vittorio Bonaccorso