La prof.essa Giuseppina Pavone su "Il malato immaginario"
La prof.essa Giuseppina Pavone su "Il malato immaginario"
La Compagnia G.o.D.o.T. ancora una volta ci propone Molière e lo fa con la competenza e la lungimiranza di sempre.
Osservatore acuto della società del suo tempo, Molière portò sulla scena con spirito critico, a volte dissacrante, gli stili e i costumi ma, soprattutto, la psicologia dei suoi contemporanei, riuscendo a impersonare la natura fondamentale del teatro attraverso la rappresentazione di pregi e difetti della società di allora e, a ben vedere, di quella di oggi.
Si recita in queste sere ‘Il malato immaginario’, ultima commedia di questo prestigioso Autore del ‘600 che, quasi per ironia del destino, muore durante la quarta replica il 17 febbraio 1673, come a rappresentare una sorta di ‘testamento scenico’, in quanto strettamente connesso con quella che fu la perenne ossessione della sua vita di drammaturgo: l’ipocrisia che dilaga nella società, applicata questa volta alla Medicina.
E cosa ci può essere di più esaltante, per un drammaturgo come Molière, della possibilità di portare in scena proprio uno spaccato della medicina applicata sulla pelle di un convinto Argante, narcisista, ipocondriaco, malato immaginario appunto, che nella malattia si crogiola, nell’intento di proteggersi dal solo, vero, grande incubo della propria esistenza: la morte!
Gli increduli e divertiti spettatori assistono stupiti a un Argante perennemente incamiciato in una lunga palandrana bianca dai profili dorati, ornata di una collana di variopinti flaconcini di liquidi medicamentosi (da cui ogni tanto beve un sorso come fosse l’elisir di lunga vita). Mentre si lamenta, brontola, litiga con chiunque si avvicini, sempre alle prese con pillole, miscugli vari, siringhe, purghe, clisteri, lavaggi e simili, fa la spola tra letto, sedia e corse nel retroscena per i suoi inevitabili bisogni corporali! In preda ad attacchi di crisi regressive, è accudito dalla moglie Belinda lucida calcolatrice, dalla serva Tonina scaltra ma sincera e dalla dolce figlia Angelica (quest’ultima presa dal suo amore per Cleante contrastato proprio dal padre); e tutto questo entro gli angusti confini della sua camera da letto (perché da qui non si schioda!), frequentata da medici compiacenti pseudo-ciarlatani (dott. Diaforetico, padre e figlio), farmacisti pseudo-droghieri (Dott. Purgone, alias Cleante), il notaio integerrimo a parole ma conoscitore delle “scappatoie della coscienza”. Argante ne ha bisogno al punto da dire al saggio fratello Beraldo, a proposito del possibile futuro genero “… il marito di mia figlia deve essere per lei e per me, io voglio mettermi in famiglia le persone che mi servono”, e alla fine non disdegna di diventare lui stesso medico, perché sì … il malato che si fa medico non sarà più un malato ma un potenziale guaritore … di sé stesso!
Aleggia su tutto e su tutti la tendenza all’intrigo, alle soluzioni creative e a volte fantasiose, nel bene e nel male, che ciascuno mette in campo a proprio uso e consumo, per superare l’inghippo prodotto dalla pervicace illogica determinazione di Argante fermo nelle sue incrollabili convinzioni.
L’eccellente regia di Vittorio Bonaccorso ci trasferisce simbolicamente nell’atmosfera tipica del ‘600, secolo del Barocco e, soprattutto, della Commedia dell’Arte, nella quale la fisicità e l’improvvisazione vengono esaltate; ne sono testimonianza la dinamica e il ritmo delle azioni, la disinvoltura nel cambiare registro interpretativo, sempre in coerenza con l’intento di Molière, la scioltezza e la padronanza del linguaggio; notevole l’accuratezza nella scelta della traduzione del testo, fra le tante esistenti, su cui si è costruita una sceneggiatura rispettando fedelmente l’originale che, se dà spazio alla comicità delle scene, non ne banalizza il senso, anzi le rende più credibili perché perfettamente contestualizzate. Se i protagonisti delle opere di Molière sono per lo più degli anti-eroi, personaggi comuni che vivono le vicende di tutti i giorni (e il malato immaginario non fa eccezione), Bonaccorso ne legge e ne riproduce i caratteri (nei pensieri, nei toni, nelle espressioni, nella mimica …), assimilandoli con quella naturalezza professionale che gli è congeniale (ne è prova anche la sua eccezionale interpretazione di Argante, credibile alla pari dell’originale di Molière!). Co-protagonista in tale realizzazione è la eclettica Federica Bisegna che, oltre a curare l’allestimento dei magnifici costumi, rende vivo e coinvolgente il suo personaggio (Tonina, la serva) con padronanza del ruolo e incontenibile verve.
Stupisce positivamente la indiscussa competenza della coppia Bonaccorso-Bisegna nella didattica teatrale, come dimostrato dalla notevole bravura di tutti gli altri attori del cast che formano, in uno con i due ‘maestri’, un corpus recitativo coeso e unico che va al di là della somma delle singole parti: Benedetta D’Amato (dolcissima Angelica innamorata, la scopriamo deliziosa anche nel canto), Lorenzo Pluchino (Tommaso Diaforetico e Beraldo il fratello di Argante, egregia interpretazione in entrambi i ruoli), Alessio Barone (Dott. Diaforetico padre e Dott. Purgone, caratteri diversi ma perfetta interpretazione), Giuseppe Arezzi (Cleante e dott. Florante, magnifico in entrambi i profili), Alessandra Lelii (la moglie Belinda, credibile nel suo ruolo disinvoltamente … ambiguo), Angelo Lo Destro (il notaio, dall’anima di azzeccagarbugli!), la piccola Maria Flavia Pitarresi (Luigina, una vera rivelazione!).
Eccellente Alessio Barone, come sempre, per le parti cantate; apprezzabile la collaborazione alla fonica di Mattia Zecchin.
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