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Danza Macabra

di August Strindberg

con

Federica Bisegna
Vittorio Bonaccorso
e gli attori della Compagnia
Maison GoDoT

Note di regia

“L’inferno sono gli altri…”
(da A porte chiuse di J. P. Sartre)

 


E’ la prima volta che affrontiamo quello che può essere considerato, insieme al norvegese H. Ibsen, uno dei fondatori del teatro moderno. Un autore che anticipò di mezzo secolo tutta la tematica di un altro genio svedese (non solo della cinematografia ma anche del teatro) e cioè Ingmar Bergman.
Strindberg vanta un’immensa produzione composta da 72 volumi di edizione critica, 65 drammi, 10.000 lettere, caratterizzata dagli interessi più svariati: dalla scienza all’occultismo, dalla filosofia alla religione, dalla psicologia all’esistenzialismo. In più, fondò nel 1908 l’Intima Teatern, un teatro di appena 161 posti dove elaborare la sua idea drammaturgica e di messa in scena – il teatro, pur essendo piccolo, aveva più di 20 camerini dove gli attori, singolarmente, potessero studiare ed entrare in “trance” – stato simile a quello allucinatorio nel quale si trasforma il suo travaglio spirituale vissuto in maniera convulsa.
Non meraviglia, dunque, se l’autore che omaggiamo in questa stagione per i 100 anni dalla sua morte, cioè Franz Kafka, fosse affascinato da Strindberg e dalla sua mistica poliedricità.
Danza macabra (o Danza di morte) – scritta in due parti, la prima alla fine di ottobre del 1900 (in una sola settimana), la seconda nel dicembre dello stesso anno – può essere considerata una metafora della vita e dello stare al mondo: la terra è l’inferno, ma l’inferno può essere anche “una condizione dello spirito… ogni uomo può portare in sé il suo cielo e il suo inferno”. Questa condizione viene amplificata nel rapporto marito-moglie già sondato da Ibsen in Casa di bambola. E nonostante la sua distanza da quest’ultimo (non solo per il suo dichiarato antifemminismo), Strindberg guarda a quella casa, in cui la lotta tra i sessi è trasformata da mera violenza a convenzione legale, mutandola in “gabbia di leoni”, dove la convivenza coatta assume livelli ancor più parossistici.
In una torre rotonda di una fortezza di pietra, ex prigione le cui pareti “puzzano di veleno”,  si consuma un gioco al massacro tra Edgar, capitano, e sua moglie Alice, ex attrice, forzati – senza possibilità di separazione – in un vincolo coniugale che si riassume in “venticinque anni di miserie”. Lui, uomo presuntuosissimo, ha natura di vampiro e vuole succhiare la vita altrui perché la propria è priva di interesse; lei ha antichi rancori e frustrazioni profonde. Al riapparire del cugino Kurt, capo della quarantena (sedotto poi da Alice), che ha alle spalle un matrimonio fallito nel quale Edgar aveva avuto un ruolo nefasto, si forma un triangolo perverso e sadomasochistico. Nella seconda parte le figure dei giovani Judith, figlia di Edgar, ed Allan figlio di Kurt, con il loro amore inquieto fanno intravedere in prospettiva il ricrearsi di una nuova “danza macabra” in una catena senza fine. I toni a tratti grotteschi e il luogo quasi senza tempo mi ricordano vagamente le atmosfere asfissianti delle quali si nutre il Teatro dell’Assurdo in testi come Delirio a due o Le sedie. Un’opera demoniaca, capace di dimostrare come il male sia nella vita e quanto sia difficile liberarcene, come l’odio sia nell’amore e come, senza il primo, forse il secondo non potrebbe essere compreso.    


        
Vittorio Bonaccorso