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Il re muore

di Eugene Ionesco

con

Federica Bisegna
Vittorio Bonaccorso
Alessio Barone
Lorenzo Pluchino
Federica Guglielmino
Rossella Colucci
e con
Anna Pacini
Claudia Campo
Mattia Zecchin

Note di regia

  “Ho paura di morire, probabilmente perché, senza saperlo, desidero morire. Ho dunque paura del mio desiderio di morire”

(da Elegie per esseri minuscoli di E. Ionesco)

Non si può non pensare che Ionesco si sia ispirato a Finale di partita di Samuel Beckett nel concepire quest’opera. Fin dal titolo: basti pensare che la frase italiana “scacco matto” è mutuata dall’arabo-persiano “Shâh Mât” che significa “Il re è morto”. Inoltre, una serie di analogie collegano le due opere, innanzitutto la tematica della morte: in un’atmosfera carica d’angoscia un protagonista patetico e quasi ridicolo cerca di ritardare l’esito conclusivo; in Finale Hamm maledice il padre, così come ne Il re muore Bérenger maledice i genitori; Clov, in Finale di partita, ha un cannocchiale per scrutare l’orizzonte, così come il medico ne Il re muore; Beckett, sempre in Finale, fa dire a Clov: a che servo io? Risposta di Hamm: a darmi la battuta, similmente ne Il re muore si infrange la logica della recita quando Marguertite risponde a Bérenger: tu morirai tra un’ora e mezzo, morirai alla fine dello spettacolo; Finale di partita si apre con il tema della fine: Finita, è finita, sta per finire…., ne Il re muore Marguerite annuncia: Finiti i folleggiamenti, finiti gli spassi…Anche se tutta l’opera di Ionesco è intrisa dal tema della morte, si pensi a La lezione, Le sedie, Amedeo o come sbarazzarsene, Assassino senza movente, ecc., un’opera soltanto vi è totalmente consacrata, appunto Il re muore. Quando ho affrontato Finale di partita, la cosa più difficile su cui mi è toccato lavorare sono stati i silenzi assordanti, i pensieri carichi di materia che affioravano come corpi galleggianti nel nulla. Qui ne Il re muore, così come quando ho messo in scena Le sedie, al contrario sono le parole quella materia di cui è composto il nulla, come se le continue domande, alle quali non seguono risposte, avessero il potere di rimandare un esito scontato, in un rito o cerimonia (tale doveva essere il titolo dell’opera) senza un prima né un dopo. Bérenger è l’uomo, inteso come genere umano, che non riesce a governare gli eventi, il cui potere è nullo, immerso in un fluido composto da sillabe, parole, frasi che sussistono a tutti i personaggi della pièce, pensieri non pensati, già formulati e utilizzati da “marionette tragiche”, immerse in quell’”assurdo” che Albert Camus descrive in modo poetico ne Il mito di Sisifo. Se è vero, per dirla con Giordano Bruno, che si comincia a morire quando si viene al mondo, allora ciò su cui medita Ionesco ha un valore ancora più forte. Cioè la morte non è il contrario della vita ma una condizione costante e presente in ogni istante della nostra esistenza; l’unica arma, o meglio, l’unico “placebo” per cercare di contrastare ciò è lasciare traccia di sé per fare in modo che altri si ricordino del nostro “essere stati”. E allora inventiamo, costruiamo, scriviamo, parliamo, recitiamo. Se pur nell’ironia, Il re muore è un grido straziante: “Non è più un re, è un porco sgozzato” commenta Marguerite al pianto accorato di Bérenger. Al contrario di Hamm che lo invoca, Bérenger ha terrore del nulla; in Finale di partita il concetto di tempo sembra scomparso, ne Il re muore invece si sentono quasi le lancette scandire il countdown sopra un palcoscenico dove “…la vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”.    

       Vittorio Bonaccorso    

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