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Finale di partita

di Samuel Backett

con

Giuseppe Arezzi
Federica Bisegna
Vittorio Bonaccorso
Giancarlo Iacono

Note di regia

La fine del mondo arriverà quando l'idea stessa di Dio sarà sparita. Di oblio in oblio, l'uomo riuscirà ad abolire il proprio passato e ad abolire sé stesso.

Emil Cioran, Quaderni 1957-1972, 1997 (postumo)

Nel film Risvegli, tratto dall’omonimo libro di Oliver Sacks, c’è una scena bellissima nella quale una malata di Catatonia si ferma all’improvviso e non riesce ad andare avanti. Il medico allora capisce che la donna segue il tracciato della “scacchiera” formata dalle mattonelle sul pavimento, la quale si interrompe proprio nel punto in cui la vecchia resta immobile. Decide allora di far disegnare gli “scacchi” fino alla parete. Da quel momento la signora riesce a proseguire il suo percorso fino alla finestra e a guardare fuori. Chissà perché ho sempre associato questa figura a Clov (il servo coprotagonista di Finale di partita) che vuole fuggire ma non ce la fa. Lo stato di catatonia per me è la metafora della perdita, del vuoto; i personaggi di quest’opera sono esseri rinchiusi dentro una “crisalide d’aria” dalla quale non riescono a liberarsi. Cristallizzati in un tempo che non c’è più. T. W. Adorno, nel suo “Tentativo di capire Finale di partita”, dice che Hamm è una deformazione del nome Amleto, il personaggio shakespeariano che per antonomasia cerca il senso di tutte le cose, come se Beckett volesse utilizzare il suo antipodo, cioè colui che non è più alla ricerca di alcun senso. L’interpretazione di questo capolavoro e della sua ambientazione (post-atomica? Post-umanità?) è sempre stata ambigua e mai definita dal drammaturgo irlandese. Certo è che i personaggi si ritrovano isolati in mezzo al niente. Così come i due vecchi protagonisti de “Le sedie”, il capolavoro di Ioneco (che abbiamo portato in scena due anni fa) – i quali si ritrovano anch’essi su un’isoletta (ma si capisce che fuori impera il nulla) – anche i personaggi di Finale di partita hanno avuto un passato da raccontare, ma non hanno più un futuro sul quale fare progetti. Rimane la ripetizione ossessiva dei giorni, uno uguale all’altro. Hamm non può alzarsi; Clov non può sedersi; i due anziani genitori non hanno gambe. C’è come in Aspettando Godot l’inutilità della reiterazione di domande e di risposte, ma qui l’autore sembra voler toglier ogni mezzo utile al movimento. Un lento, progressivo, angoscioso “rituale” verso l’immobilità, verso “L’ultimo nastro di Krapp”. Mi trovo, così come successe con Le sedie, a misurarmi con giganti “microscopici”, con silenzi “assordanti”, con ombre “accecanti”, una specie di pre-universo che aspetta solo il suo big bang. Voler fare una regia di ciò è come voler essere un dio che mette “caos” nell’”ordine”: troppo impegnativo! Mi accontento di paragonarmi a quegli astronomi che scrutano il cosmo alla ricerca del confine estremo e riportano su grafici, più o meno decifrabili, le coordinate di un punto d’osservazione, di un’intuizione, di una cometa vista sfrecciare ma della quale non si percepiscono né il punto di provenienza né quello d’arrivo.

Vittorio Bonaccorso