Note di regia
“Non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia.”
(Giordano Bruno)
Macbeth, oltre ad essere la più breve, è la tragedia più orrifica di Shakespeare. Essa tocca le più profonde e misteriose corde dell’animo perché il protagonista non è un malvagio come tanti altri nei drammi del grande Bardo: questi godono delle loro crudeltà, egli invece soffre profondamente sapendo di doverne compiere ancora.
È anche la tragedia immersa nella notte più nera, il buio della coscienza dell’uomo che guarda l’abisso dentro di sé e ne è terrorizzato e, al contempo, fatalmente attratto. Tutto nasce da Macbeth, la tragedia nasce da lui, dalla sua fervida e malefica “immaginazione”.
Infatti l’opera è anche la tragedia dell’immaginazione che travalica persino la magia e la stregoneria. Tutto è compiuto prima di compiersi, non perché le streghe lo vaticinano ma perché è come se fosse già tutto nella testa di Macbeth (capacità prolettica assoluta), egli è il veggente di sé stesso e le tre fatali sorelle sono i suoi stessi pensieri-non-pensati che prendono forma: niente può partorire cose più terrificanti della mente umana.
Un dramma visionario (come e più di Sogno di una notte di mezza estate o de La tempesta) in cui la “volontà”, per dirla con Schopenhauer, “…è una forza cieca e irrazionale, senza causa e senza scopo, dal momento che è al di là del mondo della rappresentazione, non è pertanto conoscibile tramite il tempo e lo spazio”. Dunque, Macbeth è come se ne fosse privo, è un uomo vuoto, a differenza della sposa Lady Macbeth, motore dell’azione di tutta la prima parte ma che poi cade nel delirio psichico proprio per cause visionarie.
Come dice Harold Bloom, Macbeth si può accomunare al Mr. Hyde di Stevenson: “…Hyde è più giovane di Jekyll soltanto perché la carriera di quest’ultimo è ancora giovane nella cattiveria ma anziana nelle buone azioni […] Per quanto possiamo (o non possiamo) essere virtuosi, temiamo che Macbeth, il nostro Hyde, riesca a percepire la nostra capacità di fare del male. Alla fine il povero Jekyll si trasforma in Mr. Hyde e non può più tornare indietro; l’arte di Shakespeare indica che potremmo andare incontro al medesimo destino”.
Ed è per questo che noi siamo Macbeth, perché il nostro immedesimarsi in lui è involontario ed inevitabile.
Ho immaginato l’immensa brughiera scozzese come un grande, nero sudario modellato dalla dea degli incantesimi Ecate che, insieme alle tre parche (le streghe), muove le fila di un nulla materico delimitante spazi più mentali che fisici. Un grande, torbido oceano in movimento dal quale emergono, per poi essere di nuovo inghiottite dai marosi delle tenebre, le figure principali di questa che è la tragedia di sangue per antonomasia.
Abbiamo affrontato diverse volte Shakespeare sul “palco verticale” della scalinata con Sogno di una notte di mezza estate, Shakespeariana, Con le ali dell’amore dai Sonetti, Federica Bisegna racconta Macbeth ed è stata sempre una sfida ardua. Quest’ultima produzione è il punto a cui Federica Bisegna torna e dal quale parte per una rielaborazione ancora più coinvolgente, consapevole che i personaggi shakespeariani non sono soltanto ruoli per attori ma entità che si sviluppano anziché rivelarsi.
Ancora una volta, così come facciamo con i classici greci, sperando di aderire quanto più al testo e cercando di stare lontani dall’attualizzazione così in voga nella nostra “brutta/bella – bella/brutta” epoca.
Vittorio Bonaccorso