Note di regia
Ne La favola del figlio cambiato Pirandello ci narra della perdita più dolorosa che una madre possa subire, quella del proprio figlio. Abbiamo pensato che potesse diventare metafora della perdita di qualcosa di profondamente nostro che, se non ritrovato, ci annulla. Siamo partiti da quel parallelismo che esiste tra “La favola” in cui il Principe ritorna dalla madre e “I Giganti” dove la contessa Ilse porta a termine il suo intento di recitare la sua opera in mezzo agli uomini: ognuno porta a compimento ciò per cui è nato. Ritrovare il figlio perduto è come ritrovare il senso della propria vita, così come perseguire un ideale (quello dell’arte) vuol dire riconquistare il significato di ciò che si è, come ritrovare la propria identità ma rinnovata e rinforzata. Il tema della perdita d’identità è insito nella storia e nel carattere della Sicilia (basti pensare alle innumerevoli invasioni e dominazioni che questa terra ha subito). Ma, per paradosso, è proprio quel fare suo ciò che le era estraneo che costituisce la vera anima di quest’isola. La perdita diventa dunque un arricchimento. La Sicilia – madre per eccellenza – ha dovuto sopportare innumerevoli privazioni e trasformazioni e, grazie ad esse, si è nutrita sempre di nuova linfa. Essa riscopre la propria identità solo se diventa “Persia o Cina”, per dirla con Vittorini, cioè se riesce a rinunciare a qualcosa di sé, per poi ritrovarla – ancora più vivida – sotto altra forma. Nel nostro piccolo viaggio onirico, a cui fa da basso continuo il surreale di cui è impregnata l’ultima fatica pirandelliana e in cui “vaporano” quei fantasmi evocati dal mago Cotrone creatore di illusioni e, quindi, di vita, le donne non sono diverse dalle “streghe dell’aria” (le quali rapiscono di notte i bambini nelle culle); esse sono madri e megere ad un tempo. Concezione e Medea convivono nello stesso corpo, così come nella “Sicilia–Donna–Madre” è presente al contempo quel senso di creazione e di autodistruzione. La contessa Ilse, che rappresenta l’arte osteggiata e rifiutata da un’umanità ormai abbrutita dal potere, e la Madre, che simboleggia la ragione contro ogni tipo di superstizione, hanno un sentimento in comune: la non rassegnazione, quasi una “Non quiete” nella “Speranza”, se possiamo permetterci una licenza poetica. E’ questo l’aspetto che ci interessava mettere in luce, ed è per tale motivo che volutamente non abbiamo sviluppato alcuni passaggi dell’opera, che in una messa in scena più tradizionale sarebbero indispensabili. In quest’opera ritroviamo il Pirandello delle novelle, quello secondo noi più poetico, più teatrale, poiché nelle novelle si sente meno il peso di certi stereotipi che, purtroppo, fanno parte ormai della storia del teatro italiano e, ancor più, di quello siciliano. Se è vero che questo autore fa parte della nostra identità culturale, affrontarlo dimenticandosi di quei cliché significa ritrovarlo, vuol dire riappropriarsene.
Vittorio Bonaccorso