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Il re muore

di Eugène Ionesco
Maison GoDoT
120′

Note di regia

 “Ho paura di morire, probabilmente perché, senza saperlo, desidero morire. Ho dunque paura  del mio desiderio di morire” 
(da Elegie per esseri minuscoli di E. Ionesco) 


Non si può non pensare che Ionesco si sia ispirato a Finale di partita di Samuel Beckett nel  concepire quest’opera. Fin dal titolo: basti pensare che la frase italiana “scacco matto” è mutuata  dall’arabo-persiano “Shâh Mât” che significa “Il re è morto”. Inoltre, una serie di analogie  collegano le due opere, innanzitutto la tematica della morte: in un’atmosfera carica d’angoscia un  protagonista patetico e quasi ridicolo cerca di ritardare l’esito conclusivo; in Finale Hamm  maledice il padre, così come ne Il re muore Bérenger maledice i genitori; Clov, in Finale di partita,  ha un cannocchiale per scrutare l’orizzonte, così come il medico ne Il re muore; Beckett, sempre in  Finale, fa dire a Clov: a che servo io? Risposta di Hamm: a darmi la battuta, similmente ne Il re  muore si infrange la logica della recita quando Marguertite risponde a Bérenger: tu morirai tra  un’ora e mezzo, morirai alla fine dello spettacolo; Finale di partita si apre con il tema della fine:  Finita, è finita, sta per finire…., ne Il re muore Marguerite annuncia: Finiti i folleggiamenti, finiti gli  spassi… 
Anche se tutta l’opera di Ionesco è intrisa dal tema della morte, si pensi a La lezione, Le sedie,  Amedeo o come sbarazzarsene, Assassino senza movente, ecc., un’opera soltanto vi è totalmente  consacrata, appunto Il re muore. 
Quando ho affrontato Finale di partita, la cosa più difficile su cui mi è toccato lavorare sono stati i  silenzi assordanti, i pensieri carichi di materia che affioravano come corpi galleggianti nel nulla.  Qui ne Il re muore, così come quando ho messo in scena Le sedie, al contrario sono le parole  quella materia di cui è composto il nulla, come se le continue domande, alle quali non seguono  risposte, avessero il potere di rimandare un esito scontato, in un rito o cerimonia (tale doveva  essere il titolo dell’opera) senza un prima né un dopo. Bérenger è l’uomo, inteso come genere  umano, che non riesce a governare gli eventi, il cui potere è nullo, immerso in un fluido composto  da sillabe, parole, frasi che sussistono a tutti i personaggi della pièce, pensieri non pensati, già  formulati e utilizzati da “marionette tragiche”, immerse in quell’”assurdo” che Albert Camus  descrive in modo poetico ne Il mito di Sisifo. Se è vero, per dirla con Giordano Bruno, che si  comincia a morire quando si viene al mondo, allora ciò su cui medita Ionesco ha un valore ancora  più forte. Cioè la morte non è il contrario della vita ma una condizione costante e presente in ogni  istante della nostra esistenza; l’unica arma, o meglio, l’unico “placebo” per cercare di contrastare  ciò è lasciare traccia di sé per fare in modo che altri si ricordino del nostro “essere stati”. E allora  inventiamo, costruiamo, scriviamo, parliamo, recitiamo. Se pur nell’ironia, Il re muore è un grido  straziante: “Non è più un re, è un porco sgozzato” commenta Marguerite al pianto accorato di  Bérenger. Al contrario di Hamm che lo invoca, Bérenger ha terrore del nulla; in Finale di partita il  concetto di tempo sembra scomparso, ne Il re muore invece si sentono quasi le lancette scandire il  countdown sopra un palcoscenico dove “…la vita non è che un’ombra che cammina, un povero  commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne  parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”.  


Vittorio Bonaccorso
  
  
 
 

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